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Verso un femminismo delle alleanze

Un approccio rivoluzionario e fuori dagli schemi, che contesta la naturalità dell'identità di genere e dell'identità sessuale. Questo è il queer.

Intervista di Silvia Vaccaro a Rachele Borghi

leggi l'intervista originale su ND Noidonne

Nata in seno agli studi gay e lesbici, agli studi di genere e alla teoria femminista e sulla scia delle tesi di Michel Foucault, Jacques Derrida e Julia Kristeva, la teoria queer mette in discussione la naturalità dell'identità di genere, dell'identità sessuale e degli atti sessuali di ciascun individuo, categorie costruite socialmente interamente o in parte. Partendo da questa prospettiva, perde di senso anche la distinzione - e la gerarchia che ne consegue - tra teoria e pratica o accademia e militanza. Di questo e di altro abbiamo parlato con Rachele Borghi, professora di geografia alla Sorbona, attivista queer, donna generosa e vitale che, partendo da sé, ha creato il personaggio di Zarra Bonheur come tentativo di rompere tra ricerca e attivismo, pubblico e privato, sapere e sperimentazione corporea.


Il femminismo degli anni ’70 lotta per l’auto-determinazione, la liberazione dal patriarcato e i diritti civili. Consegue alcune vitali conquiste, ma tante micce forse sono rimaste inesplose. Il movimento queer può aiutare in questo senso?

L’uso del termine queer, anche prima del 1990, anno in cui Teresa de Lauretis lo accosta alla parola teoria, era già attivo nella militanza femminista. L’accademia riprende qualcosa che già esisteva, ed è per questo che io non voglio più parlare di teoria e pratica, né di accademia e militanza. Continuare a operare questa dicotomia fa esistere ancora questa differenza, mentre da sempre l’accademia si nutre della riflessione militante e viceversa. Inoltre, la teoria queer è femminista sia nella militanza sia nell’accademia perché già Teresa de Lauretis parlava di intersezionalità e di studi post-coloniali. E l’approccio “trans-femminista” viene dal femminismo pro-sex degli anni ’80. Queer e femminismo vanno per forza insieme. Il problema piuttosto è l’uso inflazionato del termine. Ma si tratta di un processo strutturale: il sistema si appropria di questi termini integrandoli, facendoli diventare argomento mainstream e togliendo la forza sovversiva, come è accaduto per il termine genere. Non è strano che avvenga questo processo ma credo che il termine queer, utilizzato in maniera femminista, abbia ancora tutta la sua efficacia. Andiamo verso un femminismo delle alleanze, con le persone trans, le donne musulmane, le persone sex worker. È questo il femminismo in cui il queer si riconosce e che si esprime attraverso le azioni performative.


In cosa consiste l’etero-normatività dello spazio pubblico? Come le pratiche queer possono sovvertire uno spazio che solo apparentemente è uno spazio di tutti e tutte? C’è stata un’attenzione negli anni ’90 per le questioni di genere nello spazio pubblico partendo dal fatto che uomini e donne vivevano lo spazio pubblico in maniera diversa. Quest’idea ha portato a un aumento delle politiche di sicurezza nello spazio pubblico come garanzia per le donne di non subire violenza. Un approccio criticato dal movimento queer, perché rafforza l’idea della donna come “vittima” e giustifica le politiche securitarie e razziste. Perché lo spazio pubblico non è mai neutro: alcuni soggetti sono out-of-place, altri no. Ad esempio, una donna bianca di classe media è certamente meno out-of-place di un uomo nero, migrante, senza documenti. Dunque, è necessario un approccio intersezionale, che consideri altre categorie e non solo quella di genere. E poi c’è da dire un’altra cosa importante. La sessualità viene portata all’interno della denuncia di problematiche sociali, in un tentativo di visibilizzare tutti i soggetti esclusi dallo spazio pubblico per tutta una serie di motivazioni. Parlo anche di queerizzazione dello spazio pubblico per un approccio alla militanza, quello che si chiama frivolezza tattica, ovvero la possibilità di giocare con il corpo in maniera sovversiva. Il corpo marginalizzato, out-of-place, criticato, aggredito socialmente, diventa un supporto all’azione e alla militanza e un veicolo per denunciare. Io, come geografa, considero il corpo già come uno spazio che si mette in relazione con gli altri e le performance queer permettono di usare il corpo come un laboratorio di pratiche.


L’azione queer è un grido di rottura e un inno alla trasformazione. Quali sono le resistenze sociali e culturali che ostacolano più duramente il cambiamento? Grandi resistenze sono legate alla dissidenza sessuale che il queer porta avanti. Non si tratta di non essere eterosessuali, ma di rivendicare pratiche e stili di vita che vanno fuori dalla coppia normata. Non credo che nessuno si scandalizzi più di tanto davanti ad una lesbica che magari vuole formare una famiglia. Diventa più complicato quando c’è una donna che si definisce persona e non donna, che si definisce lesbica perché si riconosce in una cultura lesbica ma è lontana dalla trasposizione in ambito omosessuale dell’etero-normatività, e che vede la coppia come cellula di controllo sociale. Preferiamo parlare di alleanze, di amore diffuso, di circolazione delle energie tra persone cui non interessa essere integrate. Però è vero che le persone che fanno queste scelte sono ancora marginalizzate sia socialmente che istituzionalmente. E dato che la sessualità si fa con la testa, è un modo di vedere il mondo che viene criminalizzato e patologizzato. L’altra cosa che crea delle resistenze sta nel fatto che l’approccio queer sia dichiaratamente contro il capitalismo e il neoliberalismo. Inoltre, le resistenze sono anche legate ai singoli contesti. Io, ad esempio, incontro delle resistenze all’interno dell’Università, perché porto le performance nelle aule o i testi fuori dall’accademia, ricevendo anche critiche molto aspre, anche da parte di altri femminismi, perché l’approccio queer mina alcune basi ideologiche. Ritengo però sia molto importante lo scambio con femminismi diversi dal mio. A Roma, nel 2010 ho iniziato a frequentare la Casa internazionale delle donne, ed è stato un momento di apertura e di confronto intenso, intergenerazionale e di formazione, proprio grazie alle differenze di approccio che ci caratterizzavano. Insieme ad altre abbiamo organizzato il ciclo di seminari “Queer it yourself!” e tante delle mie riflessioni vengono proprio dalle rielaborazioni fatte duranti quegli incontri. Io alla Casa ho anche fatto la mia prima performance. Frequentando quel luogo e alcune femministe storiche, ho sentito di essere all’interno di un continuum di pensiero. Perché per me alla base della pratica femminista c’è il riconoscimento del lavoro delle altre, sia quello attuale che quello passato.


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Questa intervista che ci ha concesso, Rachele la dedica alla sua mamma, lettrice della nostra rivista, scomparsa pochi giorni dopo la nostra chiacchierata. Anche la redazione di Noidonne si unisce a lei nella dedica e nell'affetto.

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