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I nostri genitali non dicono chi siamo

Drag king: mettere in scena (e decostruire) le rappresentazioni della maschilità. La conferenza della performer e docente alla Sorbonne. Il 24 marzo al Ducale.

A noi che siamo chiamate donne è insegnato a parlare a bassa voce, non uscire da sole la sera e annuire con rispetto all'uomo che ci cede il passo aprendo una porta. A noi chiamate o chiamati transgender sono imposti sguardi di curiosità, sgomento o disgusto, i commenti urlati o sghignazzati, l'imbarazzo di esibire un documento d'identità che ci descrive con un altro nome e un'altra faccia. A noi chiamati uomini è chiesto di essere bianchi, giovani, abili ed eterosessuali, e di camminare a testa alta fieri del nostro privilegio sociale. Lo spazio cambia, a seconda di chi siamo.


Rachele Borghi, geografa di genere, performer e docente alla Sorbonne di Parigi, sarà a Palazzo Ducale martedì 24 marzo per la conferenza Drag king: mettere in scena (e decostruire) le rappresentazioni della maschilità. L'evento è parte del ciclo L'invenzione dell'eterosessualità – Maschi e altri maschi ed è organizzato in collaborazione con About Gender da un'idea di Ostilia Mulas.


«Nel mio intervento – spiega Borghi – affronto il tema dell’eteronormatività nello spazio pubblico, con un focus sulla performance king come mezzo di sovversione di tale norma, come dispositivo di creazione del disordine rispetto all’ordine di genere».


Cosa intendiamo con drag king? È la rappresentazione intenzionale della maschilità messa in atto prevalentemente, ma non solo, da donne (o meglio, persone assegnate donne). In maniera speculare a quanto avviene per le più note drag queen, il king consente la costruzione di una propria maschilità attraverso un lavoro di riflessione e decostruzione degli sterotipi di genere; attraverso rituali quali la scelta di un nome, dell'abbigliamento, la creazione di protesi, di baffi e barba e capelli; attraverso l'esibizione su un palcoscenico, o portando con sé il proprio king nella vita di ogni giorno, in maniera solo interiore o anche esteriore. «Il drag king nasce in spazi chiusi, on stage, ma è nel tempo divenuto anche pratica pubblica volta a generare trouble in chi guarda».


Il concetto di genere assegnato è uno dei presupposti essenziali per comprendere il king: «Parlare di assegnazione riporta l’attenzione sul fatto che i generi maschile e femminile sono assegnati alla nascita a seguito del rapido sguardo di un medico sui nostri genitali: si assegna il genere a partire solo da questo aspetto e lo si dà per naturale, senza tenere conto che esistono un numero indefinito di generi e che i nostri genitali non bastano a rappresentare chi siamo».


Borghi racconta com'è entrata in contatto con il king: «Ho fatto il mio primo laboratorio nel 2011: è stato un momento forte; mi sono ritrovata ad affrontare le paure legate al mio percorso personale. Ne è emerso un nuovo rapporto con lo spazio pubblico, così come la scoperta di nuove forme di desiderio e di sessualità».


Il laboratorio è un elemento centrale del king: avviene in uno spazio chiuso, in qualche modo protetto, dove ogni partecipante ha la possibilità di sviluppare nuove forme di conoscenza del proprio corpo, insieme alle altre persone che vi partecipano. Una (ri)scoperta e (ri)appropriazione che è individuale e collettiva al tempo stesso: l'interazione tra le diverse persone, tra i diversi approcci e punti di vista sulla maschilità che ciascun* porta con sé, costituisce il vero arricchimento per chi fa questa esperienza.


Come scrive nel libro Il re nudo, «per me l'aspetto di gruppo, di condivisione di pratiche e riflessioni con compagne vecchie e nuove, è alla base della mia concezione del king, come lo sono anche la ricerca e scoperta di sensazioni che mettono il mio corpo al centro e lo rendono uno strumento di piacere da una parte e di potenziale sovversione dall'altro, nella creazione di spazi pubblici caratterizzati dall'ambiguità di genere».


Il re nudo, di cui Borghi è co-autrice, è il primo progetto di documentazione sul king in Italia. «L'Italia è caratterizzata da una forte presenza di drag king: oltre ai gruppi che portano avanti attività di laboratorio e di esibizioni on stage, vi sono festival che utilizzano la performance come atto politico, quali Ladyfest e Genderotica. Vi sono poi contaminazioni con altre pratiche e performance queer, come le drag queen e le faux queen; con la body art, grazie a performer come Julius Kaiser e Kyrahm; infine con il postporno, di cui una delle più note performer italiane è Slavina, un movimento politico che combatte la società patriarcale e sessista attraverso una maggiore consapevolezza del corpo e una sovversione dell'immaginario sessuale».


Geografa e performer: come si coniugano due percorsi così apparentemente lontani? «I miei studi di geografia di genere mettono insieme il mio percorso femminista e l'approccio postcoloniale, secondo cui lo spazio non è solo scenario della storia, ma è anche produttore di significati, di dominazioni e di relazioni di potere. Portare il femminismo nella geografia significa ribaltarne l'epistemologia che ha invisibilizzato le voci minoritarie, pur trattandosi proprio di coloro che questa geografia l'hanno sviluppata.


Pensiamo al colonialismo: gli esploratori erano maschi, bianchi e occidentali. I luoghi e popoli scoperti esistevano anche prima delle esplorazioni, delle dominazioni, prima cioè che esistessero rispetto allo sguardo europeo. Allo stesso modo, lo spazio pubblico attuale è abitato da tutte quelle persone che, ad esempio per diverso colore della pelle e/o di classe e/o di orientamento sessuale, sono oggi in una posizione di subalternità rispetto alla classe dominante. Il king, da performance sviluppata in un contesto queer, è pertanto divenuto una delle pratiche di visibilizzazione del genere, una rinnovata presa di coscienza del proprio rapporto con lo spazio pubblico e un modo per affrontare le (etero)norme che lo governano».

Marta Traverso

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